Sta bene. Il prossimo 16 dicembre festeggia i suoi primi 15 mesi di vita. Merito di una speciale terapia che sta restituendo al suo giovane sistema immunitario la capacità di difenderlo dalle infezioni esterne. La piccola Ariel, origini campane, del casertano, è uno dei 20 pazienti pediatrici che nei mesi scorsi ha beneficiato di una nuovo trapianto sperimentale. Una terapia che, attraverso un trapianto di midollo da genitore, azzera il rischio di mortalità nei bambini colpiti da difetti congeniti del sistema immunitario.
I risultati di questa sperimentazione salvavita (
qui ili link), messa a punto dall’équipe di
Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di oncoematologia dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, saranno presentati a San Diego, in California, il prossimo 3 dicembre, nel corso del 58esimo meeting annuale dell’American society of hematology, (Ash), e dimostrano “una guarigione del 100% dei bambini con immunodeficienze primitive”. La storia clinica della piccola Ariel comincia con un colpo di tosse. “È il 16 marzo 2016, il colpo di tosse dura 15 interminabili minuti, alla fine dei quali la bimba si adagia con la testa sulle mie spalle – racconta a IlFattoquotidiano.it Mauro, 29 anni, il giovane papà di Ariel -. Spaventati, con mia moglie corriamo a Napoli.
Ospedale Santobono. Dopo le prime terapie e 40 giorni di intubazione, però, la situazione non si risolve. È allora che i medici, bravissimi, dopo altre indagini immunologiche, ipotizzano la causa dei problemi di Ariel”.
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La diagnosi dei medici partenopei, che si rivelerà poi corretta, parla di possibile forma di “immunodeficienza combinata grave”, la Scid, (dall’inglese Severe combined immunodeficiency disease), una malattia ereditaria che spunta le armi della piccola Ariel, esponendola alle infezioni esterne.
La patologia di Ariel è
una delle cosiddette malattie rare: ha una frequenza di un caso su 50mila, ed è caratterizzata dall’assenza di alcune delle sentinelle dell’organismo,
i linfociti T periferici, che porta a infezioni respiratorie gravi già a pochi mesi dalla nascita, e a ritardo della crescita. “È al Santobono che io e mia moglie scopriamo di essere portatori sani di questa malattia – spiega il papà di Ariel -. Ed è grazie ai medici di Napoli che sentiamo per la prima volta il nome del professore Locatelli. Non posso dimenticare il giorno del nostro primo contatto con lui. È il primo maggio. Scrivo una mail al professore. E, nonostante il giorno di festa, dopo mezz’ora ricevo una sua telefonata. Ci comunica che il giorno dopo ci aspetta a Roma, e che per i bambini si lavora anche il giorno di Natale. Parole – sottolinea Mauro – che mi sono rimaste impresse”.
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Una settimana dopo, il 7 maggio, la piccola Ariel viene trasferita a Roma, al Bambino Gesù. Il 24 maggio viene sottoposta a trapianto di midollo, donato dalla mamma. Dopo poche settimane, il 17 giugno, viene dimessa. “L’esperienza più dura – spiega il papà di Ariel – è stata la rianimazione. Ma non ci ha sfiorato mai il pensiero che qualcosa sarebbe andato storto. Merito di Locatelli e della sua équipe, che sono stati sempre rassicuranti”. Gli scienziati del Bambino Gesù prelevano i linfociti della mamma della piccola Ariel e li manipolano geneticamente, per favorire il recupero della cosiddetta immunità adattiva, che protegge dalle infezioni virali o fungine. Può, però, accadere che queste cellule aggrediscano l’organismo del ricevente. È una delle maggiori cause di morte in caso di trapianto, ed è una delle ragioni per cui spesso si evita questa procedura in casi di malattie che non mettono a immediato rischio la sopravvivenza del paziente. Ma per la patologia di Ariel, la Scid, non c’è tempo da perdere. “I pazienti con forme gravi di immunodeficienza primitiva hanno bisogno di essere trapiantati velocemente – spiega a IlFattoquotidiano.it Franco Locatelli -. Si tratta, infatti, di patologie incompatibili con la vita in assenza di un trapianto. Per questo, la scelta spesso ricade su uno dei genitori, uguali al 50% dal punto di vista immunogenetico. Questo comporta, però, il rischio di aggressione da parte delle cellule del donatore”.
La tecnica messa a punto dagli scienziati del Bambino Gesù – che hanno coordinato un team formato da numerosi centri europei e statunitensi – permette, adesso, di combattere e sconfiggere questa possibile aggressione. Il risultato dei ricercatori dell’ospedale pediatrico della Santa Sede è stato ottenuto grazie all’utilizzo di un gene suicida, denominato “inducible Caspase 9 (iC9)”, in grado di tenere sotto controllo eventuali infezioni dovute al trapianto. Si tratta della prima sperimentazione al mondo di questo genere. “È una tecnica di terapia genica – chiarisce Locatelli -. Se tutto procede senza complicazioni, il gene suicida resta dormiente. In caso di aggressione da parte delle cellule del donatore, invece, basta iniettare nel paziente un agente di per sé inerte, l’AP1903, ma in grado di attivare il gene suicida, che scatena la cosiddetta cascata della caspasi. In pratica – chiarisce Locatelli -, spingiamo al suicidio più del 90% delle cellule trapiantate”.
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Questi risultati sono, adesso, in corso di validazione anche per i pazienti leucemici. I ricercatori si aspettano, infatti, che nei malati di leucemia le cellule del donatore, modificate con il gene suicida, oltre ad abbattere la possibilità di infezione, possano anche ridurre il rischio che la malattia si ripresenti. “Con questa metodica il trapianto diventa un’arma più potente ed efficace – aggiunge Locatelli -, e possiamo applicarla anche ad altre patologie, come forme leucemiche o talassemiche. Per queste ultime, infatti, prima di questa soluzione il trapianto poteva essere effettuato solo in caso di donatore compatibile al 100%. Intanto – aggiunge l’esperto -, i 20 pazienti pediatrici sottoposti al trattamento, sedici italiani e quattro stranieri (di cui due europei e due degli Usa) hanno tutti beneficiato di un recupero immunologico veloce. E solo due sono stati sottoposti all’attivazione del gene suicida, rispondendo perfettamente in 24 ore. Nel periodo successivo al trattamento, inoltre – conclude Locatelli -, le cellule trapiantate nei pazienti possono arrivare a rappresentare il 70% dei linfociti globali circolanti”.
Sono passati sei mesi e Ariel sta bene. “Non ha avuto effetti collaterali – racconta il papà -. Col passare del tempo, le visite di controllo diminuiranno. Per noi resterà un brutto ricordo, lei credo non avrà quasi per nulla memoria di questa esperienza. Un giorno gliela racconterò. Prima, però, io e mia moglie vogliamo provare ad avere un altro figlio. Sappiamo che esiste il 25% di probabilità di trasmettergli la malattia, ma non ci arrendiamo. Ci affideremo, eventualmente, alla diagnosi genetica prenatale. Intanto, appena possibile – conclude Mauro -, la prima cosa che farò è andare a donare il midollo”.
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